Franco Greco, vulcanico fino ai suoi ultimi giorni
di Bruno Iorio
Qui non si parlerà di Franco Greco, studioso e critico di teatro. Tanti e più competenti lo hanno fatto egregiamente, ma si tratterà di mostrare quel quid ineffabile, religioso che distingue l’intellettuale vero dal professore e che Franco possedeva a pieno titolo. Chiedetelo ai suoi studenti. Intellettuale prima di tutto, avido, curioso, insaziabile di sapere, prolifico generatore di progetti, libri, riviste, conferenze, idee, spettacoli e ancora idee e ancora libri.
Ci conoscemmo ufficialmente nel 1972, a Terracina, sul Monte di Giove, era d’agosto. Il giovane assistente di Battaglia, vulcanico, attivissimo, con i capelli mobilissimi, quasi cercava di afferrare e trasfigurare le cose dette ritrovandole già dinanzi al ragazzotto neolaureato con in testa l’Università (e Battaglia), ma più laico (più scettico), più mangia baroni e più mangiapadroni, il mondo di ieri. Assisteva all’incontro mia sorella che chi sa cosa avrà pensato degli intellettuali, con tipico atteggiamento intellettuale. Ripensandoci, posso dire con Cesare Pavese che in quell’inizio è anche la fine del discorso, la partenza coincide con il ritorno. Franco da allora non è mai cambiato. Protagonista di mille avventure e percorsi culturali, teatrali e non, nella sua Napoli nobilissima, a Caserta e all’estero, progettista e artefice, rapido ed efficace, promotore di molte iniziative meritorie di letteratura ed arte d’alto profilo, fu in fine autore di libri prestigiosi che presto si diranno fondamentali. Ma questo non ci interessa, è vocabolo da professore. Come nei grandi, veri intellettuali, agiva in Franco una grande autentica cattolicissima religione delle opere e degli uomini (il laico si ferma alle opere) che lascia la traccia, il solco di una vita. È questa la chiamata cui bisogna rispondere con la vita stessa. Ecco il clero, l’intellettuale chierico, responsabile di quanto fa, compie e scrive. Responsabile di fronte a Dio, per Franco non c’era dubbio: la buona coscienza dei protestanti a lui non poteva bastare; da napoletano sapeva che troppi sarebbero stati esclusi o inclusi dall’appello solo individuale.
Perfino negli ultimi giorni quanti appunti di lavoro consegnati a parenti ed amici: aveva ancora un progetto da ultimare, qualcosa da fare, una pietra da portare ancora a destinazione nell’interminabile edificio della cultura. Già, Franco conosceva bene la poesia di Mario Luzi (da Nel magma, Milano, 1966, p. 23) che apre la celebre Mitografia del personaggio di Salvatore Battaglia, uscita, guarda caso, nel ’68:
Anche tu sei nel gioco,
anche tu porti pietre
rubate alle rovine
verso i muri dell’edificio.
Nessuno meglio di Franco ha espresso questa dura e sacrificata religione della cultura come costruzione interminabile, pietra su pietra, opera su opera, spettacolo su spettacolo, libro su libro, memorie degli ultimi strappate alle rovine e consegnate al futuro.
Addio Franco. Lo spazio che lasci non sarà mai colmato.
(«Nuova Gazzetta di Caserta», mercoledì 26 agosto 1998)