Dario Fo o del teatro
di Franco Carmelo Greco
Ignoro se, quando si è diffusa la notizia dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Dario Fo, sia stata manifestata maggiore incredulità per il premio assegnato al drammaturgo o, con la spocchia già rilevata da Umberto Eco, maggiore disprezzo per il comico, per il giullare, per il guitto. Posso testimoniare d’aver colto l’una e l’altra nei più disparati commenti, ma sempre – è singolare – da parte di persone “di cultura”: ho raccolto, invece, un improvviso sussulto di compiacimento in semplici estimatori, gli spettatori comuni del suo teatro.
Improvvisamente, il Nobel a Fo ha messo a nudo alcune delle contraddizioni più evidenti del nostro tempo, nel quale ci si alimenta di spettacolo, ma ancora non si è capaci di riconoscere ad esso, ed in particolare al teatro, uno statuto d’arte. Si finge d’ignorare, o lo si rifiuta deliberatamente, che anche il teatro – non riducibile a semplice prodotto di consumo per il solo fatto che si struttura e si attua attraverso eventi “effimeri” – nasce da lontano, da ragioni antropologiche e culturali profonde, nelle quali si collegano e si riconoscono attori e spettatori. In esse l’immaginario drammaturgico acquista una sua forma linguistico-espressiva e da esse la scena della rappresentazione deriva la sua capacità di farsi sempre contemporanea, anche allorché si rappresenti un testo di duemila anni fa, o nato agli antipodi della terra. La cultura del teatro, in tal modo, è rimasta una cultura “altra”: proprio come è avvenuto per la rappresentazione e per gli attori, che agli occhi della Chiesa, soprattutto post-tridentina, incarnarono e resero viva, concreta, visibile e, ciò ch’era più grave, resero fascinosa l’arte diabolica della finzione: cioè il rifiuto di una realtà e di una identità propria, in favore della creazione di “finte realtà”, di apparati surrettizi del reale e della vita, e per la professione di altre identità e di altri destini. Del teatro si è accettata solamente la “forma-testo”, cioè una scrittura della quale ogni cultura che avesse bisogno di gestirne le capacità pedagogiche e persuasive ha cercato di organizzare il controllo: retorico-letterario, politico e così via. Stupisce che anche la cultura “illuministica” si sia adeguata alla prospettiva cattolica: ma non è sempre stato così, perché proprio l’illuminismo settecentesco, negli eventi rivoluzionari parigini, affermò la natura d’un teatro nuovo e rivoluzionario perché lo faceva uscire dai suoi spazi deputati – i teatri “all’italiana” – con i posti gerarchizzati del re, della corte, dei nobili e così via, fino al popolino, che si faceva entrare in platea ad inizio dell’ultimo atto dello spettacolo – e lo portava nella nuova scena della città; lo estraeva dai ruoli della finzione e della ripetitività di storie immaginarie, per precipitarlo nella realtà dei ruoli civili e nella verità della storia.
Nel teatro di Fo, va detto, questo equivoco si accentua: perché egli ha cavalcato una forma di militanza politica che talvolta ha portato il suo teatro fuori della stessa sua coscienza di rappresentazione, per farsi manifesto. Ma questo obiettivo, semmai, oltre che accomunarlo a quel progetto illuminato e rivoluzionario del Settecento, lo ha restituito alla genetica, originaria natura del teatro, di ricercare la propria ragione rappresentativa nelle contemporanee ragioni degli uomini e nella loro coscienza, facendosi della stessa manifesto e forma e predicando la propria militanza. Ma neanche queste considerazioni sono bastate a ridurre lo scherno e il disprezzo con i quali taluno ha accolto la notizia del Nobel assegnato all’attore Fo, perché gli ha fatto velo appunto ciò, che accanto al drammaturgo, autore di sessanta testi teatrali tradotti e rappresentati sotto ogni latitudine, vi fosse un attore, un guitto, un giullare. Un’immagine, quest’ultima, che lo stesso Fo si è sempre attribuita, facendo dei giullari, da lui reincarnati, i simboli della fantasia e della libertà. Un’immagine, peraltro, esaltata anche dalla sua capacità di restituire attualità e linfa ad un modello culturale “di lunga durata” dell’attore moderno, quello della “Commedia dell’Arte”, modello addirittura identificato nell’attore italiano. Così, il giullare che rivelava le nudità del re, ed il commediante, che simboleggiava tutto quanto di eversivo potesse covare nella società, sono le immagini di volta in volta sovrapposte, con effetto negativo, sul profilo del drammaturgo. Ed anche qui si è operata una distorsione: quel modello di attore giullaresco ed istrionesco, originalmente ricreato da Dario Fo, costituisce la più grande valorizzazione della cultura e della civiltà teatrale italiana, che, al di fuori di quel modello, di universalmente accolto ha prodotto solamente il melodramma e, se vogliamo, la rappresentazione “pastorale”, che ha saputo godere comunque di una breve esistenza.
Ed anche Dario Fo, giustamente compiaciuto e polemico, ha favorito l’impressione che il Nobel fosse assegnato all’attore, dichiarando la novità che agli onori di questo riconoscimento fosse salito un attore per giunta “comico”, ben sapendo che il premio è stato conferito al drammaturgo, la cui attività è di pertinenza della letteratura. Ma c’è, con lo stupendo paradosso di questo riconoscimento, una verità ancora più profonda: il riconoscimento premia una drammaturgia che fa corpo con il suo attor protagonista, il cui modello costituisce quanto di più culturalmente connotato e specifico potesse la cultura e la civiltà occidentale proporre: il commediante italiano dell’arte. Gli “illuminati” che arricciano il naso in segno di stupore o di disgusto, non dimentichino quanto questo premio Nobel costituisca un riconoscimento, attraverso Fo attore comico e giullare e istrione, prima e più che attraverso il Fo drammaturgo, al meglio che il teatro italiano abbia saputo dare alla cultura moderna ed alla rappresentazione del mondo. Certo, fra i Nobel per la letteratura c’è stato spazio già per Pirandello, e forse ce ne sarebbe stato per Eduardo, che anche ha saputo dar corpo ai fantasmi del nostro tempi, ma l’assegnazione a Fo costituisce, semmai, anche un risarcimento: si salda con il Nobel pirandelliano perché ne costituisce l’altra faccia. Direi, quella implicita nei Sei personaggi in cerca d’autore e nello spazio per l’improvvisazione che si apriva alle loro storie; e quella successiva ai Giganti della Montagna, perché si colloca sulla stessa lunghezza d’onda mitica con cui lì si celebra il teatro: è mitica, per Fo, l’edenica felicità rappresentativa dei commedianti dell’arte ed è poetica la loro finzione. Quanto ad Eduardo, valga per tutte la dichiarazione di Fo, che Eduardo egli lo ha sempre sentito come il suo maestro.
In ultimo, sia permesso a me, che di teatro vivo e sento questo premio a Fo come una vittoria personale, di invocarne i frutti, di immaginare che ne piova una manna di conseguenze: che il teatro ritrovi il suo posto civile nella educazione dei giovani; che riscopra la sua necessità per le coscienze libere; che si faccia palestra di impegno e di moralità. Confido che il premio assegnato a Fo favorisca una legittimazione della scena – come arte cultura professione studio – ben oltre i confini della “provincia” intellettuale degli “illuminati”, che sono sparsi dovunque. E voglio sperare che, nella realtà universitaria e cittadina napoletana, si voglia dare finalmente alimento e corpo a questo aspetto della cultura della città, che affonda, come il modello attorico di Fo, nella memoria storica di questa terra e delle sue forme elettive e più singolari di auto-rappresentazione.
Per questa via, il Nobel, almeno un po’, appartiene a noi tutti.
(Articolo parzialmente pubblicato dal quotidiano “Il Mattino” con il titolo di Una vittoria di tutti noi. Il Nobel a Fo, martedì 14 ottobre 1997, p. 16. Qui è riprodotta la versione integrale)