Addio al mio professore, di Francesco Piccolo

Addio al mio professore

di Francesco Piccolo

L’ultima volta che avevo visto il professore Greco – per tutti quelli che come me sono stati suoi allievi all’università non c’è mai stato altro modo di nominarlo, e nemmeno di pensarlo – era stata alla presentazione di un libro, pochi mesi fa. Non lo vedevo da qualche tempo, ed era molto, ma molto diverso da sempre. Era affaticato e pallido, e senza mezzi termini mi disse che era stato malato, mi sussurrò di cosa, e prima che io dicessi una qualsiasi delle stupidaggini che vengono in mente in certi momenti, aggiunse che però ora era tutto a posto, che era passato tutto, che stava bene, che era pronto per tornare a lavorare e per rimettere in moto quei progetti che sapeva portare avanti a decine, tutti insieme, in un caos che faceva avvilire tutti quelli che gli stavano intorno, ma di cui sembrava avere sempre tutti i fili della matassa sotto controllo.
Per un po’ di tempo ho pensato che barasse, che per non farci preoccupare dicesse che era tutto a posto, che ognuna delle cose che aveva ideato andava avanti (un saggio, una mostra, una conferenza, uno spettacolo teatrale, un seminario e tante altre cose), ma che invece non era così. Poi ho capito che la sua vita era come il suo studio di casa, uno dei più affascinanti che abbia mai visto, dove intorno a grandi divani spuntavano pile di libri, manoscritti e tesi, che si arrampicavano da tutte le parti, fino a invadere la scrivania e a coprire la visuale se lui lavorava lì al computer (altra sua grande passione, e un pomeriggio mi ha spiegato con entusiasmo e meticolosità il perché dovessi riportare tutto il mio archivio su di esso – eppure io ero un ragazzo, e forse quell’ardore tecnologico spettava a me): ecco, per anni ha detto che quello studio aveva bisogno di un’estate intera per tornare in ordine, e quell’estate sarebbe stata la prossima, e restava sempre la prossima: non lo faceva mai e nonostante tutto ogni volta dopo due anni al massimo trovava quel che cercava, come se tutto fosse catalogato in un ordine ineluttabile. E infatti, anno dopo anno, questi progetti li vedevo realizzati, ma non c’era verso di parlarne, perché si era già appassionato ad altro.
Ha scritto tanto, e tante, ne sono certo, sono le cose che avrebbe scritto, ma qui mi preme molto ricordare il professore universitario, la sua generosità che lo costringeva a restare spesso fino a sera per dare retta a tutti, mostrando ogni volta l’entusiasmo di un esordiente. In anni in cui l’università sembrava (ed è) uno dei centri nevralgici di tutto il male che passa per questo paese, è importante testimoniare che c’era qualcuno che aveva come primo piacere la vita con gli studenti. E so che tanti, tantissimi, possono confermare quanto sia vero.
L’ultima volta che l’ho visto mi ha detto «ora è passato tutto, sto bene», ma quelle sono state le uniche parole che non mi sono piaciute, erano frettolose e false. E non gli ho creduto.
Quando dal giornale mi hanno chiamato per chiedermi questo ricordo, l’ho saputo in quel momento. Sono rimasto in silenzio, e ho detto sì perché pensavo fosse mio dovere, ma non ne avevo nessuna voglia, perché ero scosso e sorpreso, perché è vero che non gli avevo creduto, ma non c’è giorno in cui si è pronti per una notizia cattiva, e ogni volta è molto più presto di quanto si era immaginato. E invece ora so che queste poche righe non mi bastano per niente, e non solo, ma i ricordi affiorano uno dopo l’altro senza sosta, e potrei andare avanti per chissà quanto. E lo farei, perché intanto che ne scrivo mi sembra che non se ne è ancora andato, mentre so che nel momento in cui batterò sui tasti la mia firma questa specie di euforia che mi è presa svanirà in un lampo e mi prenderà la tristezza infinita delle cose ineluttabili del mondo.
Sono sicuro che con lui ora se ne andranno molte di quelle sensazioni di giovinezza, di repulsione per il sentirsi «grandi», che hanno accompagnato fino a oggi i tantissimi di noi che sono stati suoi allievi, che hanno parlato con lui di teatro e di tante altre cose, importanti e stupide, che servono a fare in modo che la vita continui a scorrere. Se ne andranno con lui e questo non ci piace affatto.

(«Corriere della Sera – Corriere del Mezzogiorno», giovedì 20 agosto 1998)

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