ANTONELLA VALOROSO E PAOLA VISONE
La maschera e le metamorfosi
Partitura per due voci in cinque atti con un prologo ed un epilogo
P: Prologo
(al pubblico)
A: Abbiamo deciso di ripercorrere la vita e le tante storie (quante storie! avrebbe ironizzato lui stesso) di Franco Greco in una maniera sicuramente inusuale ma probabilmente meglio capace di restituire – per quello che i racconti, le suggestioni, i ricordi e le memorie possono fare – la ricchezza di una esistenza che inevitabilmente si rivela, all’occhio dell’osservatore più accorto, un continuo trascorrere di esperienza in esperienza alla ricerca di punti di partenza sempre nuovi … un’esistenza guidata da un inesauribile desiderio di provare, conoscere, osare, sperimentare, progettare …
P: Questo è il ritratto di una insostituibile “maschera” e delle sue tante “metamorfosi”….
A: I Atto
La lezione
P: La lezione di Franco Greco aveva una naturale tendenza ed al tempo stesso una insopprimibile necessità di traboccare, di esplodere ed espandersi all’esterno dell’aula universitaria. Sono in molti a ricordare i proverbiali ritardi di Franco Greco, il suo arrivare trafelato nell’aula E al primo piano dell’edificio di corso Umberto, con i suoi fasci di carte, gli appunti dell’ultim’ora, la sua borsa sempre sull’orlo del collasso e… un gruppo di studenti, più o meno nutrito a seconda delle circostanze. Seguivano le scuse per il ritardo, e magari il racconto del quotidiano periplo Caserta-Napoli, un’odissea che culminava puntualmente con la tragicomica impossibilità di trovare un parcheggio. Molti si infastidivano per il ritardo… altri ascoltavano divertiti il racconto quotidiano, sempre nuovo e sempre diverso… Ma voler sintetizzare tutto ciò limitandosi ad affermare banalmente che Franco Greco arrivava a lezione “puntualmente in ritardo” significherebbe non aver inteso un aspetto fondamentale del concetto che Franco aveva della lezione…
A: La lezione di Franco non cominciava in ritardo… ma piuttosto in anticipo! E cominciava in un luogo altro rispetto all’aula E al primo piano dell’edificio di corso Umberto. Perché nonostante la quotidiana odissea, Franco arrivava in genere in Facoltà decisamente in anticipo rispetto all’orario della lezione… ed inevitabilmente anche la lezione cominciava in anticipo!
Dove? Nel suo ufficio, con gli alunni ed i laureandi che approfittavano della sua presenza per domandare chiarimenti, sciogliere dubbi, verificare bibliografie, consegnare o riprendere lavori in corso. E insieme con loro, uditorio eletto e casuale al tempo stesso, la lezione …incominciava… anticipando i temi del giorno e magari alla fine trascinando la conversazione-pre-lezione fino all’aula di Corso Umberto, e trascinando insieme con questa quegli studenti ed allievi che forse erano diretti li, ma forse non lo erano…
P: La lezione aveva dunque una sorta di andamento itinerante. La sosta nell’aula era soltanto un momento di questo andare peripatetico tra il Chiostro di San Pietro Martire e la sede centrale dell’Università “Federico II”. E la processione riprendeva quasi sempre allo scadere dell’ora –scandito dall’orologio dello scalone di Minerva che batteva il mezzogiorno – quando Franco lasciava l’aula accompagnato da un gruppo di studenti ed allievi con i quali la discussione continuava mentre si ritornava – secondo un preciso andamento circolare – all’ufficio a via Porta di Massa dal quale la singolare processione si era mossa e dove i discorsi andavano avanti, difficilmente si concludevano, sicuramente ricominciavano.
A: Ma se da una parte la tendenza a tracimare dall’aula era una caratteristica costante, è anche vero che, per un procedimento opposto e speculare, l’aula universitaria tendeva ad accogliere suggestioni, fatti e persone appartenenti ad un universo decisamente altro rispetto al mondo accademico: attori, artisti, teatranti, registi, uomini e donne di spettacolo. Le presenze, i racconti e le testimonianze di chi con la propria scrittura, il proprio corpo e la propria voce, di chi con la propria vita ha creato e continua a creare “teatro” potevano comunicare con forza ai giovani studenti il carattere reale, concreto, attuale, eterno ed effimero dell’arte scenica. E questo Franco lo sapeva molto bene. La lezione trovava poi il suo completamento necessario e naturale nello spazio del teatro, dei tanti teatri, di tutti i teatri: Ausonia, San Ferdinando, Politeama, Nuovo, Galleria Toledo, Bellini… dove insieme si andava a verificare e confrontare la logica delle teorie con la forza delle emozioni.
P: Dario Fo, Leo De Berardinis, Giorgio Gaber, Geppi Glejeses, Laboratorio Teatro Settimo, Luca De Filippo, Il teatro dell’oppresso di Roberto Mazzini, Tato Russo, Mariano Rigillo, Enzo Moscato, Maddalena Crippa, Mario Martone, Maurizio Scaparro, Eugenio Barba: sono alcuni dei nomi.
A: Le avventure di Juan Padan, Finale di partita, Caligola, Pulcinella, Lo Bazzareota, Giorni felici, Palummella, L’ispettore generale, Affinità elettive, e la rivelazione di Guernica, messa in scena nell’aula magna della Facoltà di Lettere da un giovanissimo Toni Servillo: questi i titoli degli spettacoli.
P: La lezione di Franco Greco era dunque un itinerario affascinante, un contenitore di suggestioni, un territorio di contaminazioni in cui i temi più cari – la metafora di Pulcinella; il tenebroso Della Porta e la sua inquietante fisiognomica; l’inseparabile quartetto Perrucci, Belvedere, Amenta, Liveri; l’attore uno e trino dei De Filippo (Peppino, Titina, Eduardo) – si intrecciavano costantemente con la ricerca di nuovi territori da esplorare: la semiotica del teatro; la drammaturgia della santità; il teatro come viaggio, come evoluzione e trasferimento di discorsi; il dialogo tra immagine della scena ed arti figurative; la drammaturgia dell’attore; il concetto di teatro come scena e come luogo di relazione tra le arti.
Le grandi doti di “oratore”, i percorsi trasversali, le suggestioni legate a linguaggi diversi, sono forse alcuni degli aspetti più significativi della didattica di Franco Greco. Ogni suo corso era un itinerario iniziatico, un viaggio tra testo e scena; tra la tradizione dialettale e l’avanguardia novecentesca. Un’esperienza culturale e umana di grande intensità.
A: Tutto questo senza mai lasciare fuori dalla porta il senso dell’umorismo e dell’ironia. E allora, nella lezione del 18 dicembre 1990, poteva accadere che prendendo le mosse dalle suggestioni della scena napoletana tra 1585 e 1620 – “una scena che registrava la significativa presenza di commedianti spagnoli, e di questo tema si sono occupati Benedetto Croce, Alba Croce, e Gian Luigi Beccaria” – si passasse a discutere del pastiche linguistico, del “pastrocchio” verbale proprio di queste esperienze teatrali. E da questo ad un “pastrocchio” di carne e verdure a base di “punta di petto” o “coperta di spalla”. E questo non solo e non tanto con il gusto di chi vive la cucina come un’arte, ma soprattutto con la consapevolezza del grande comunicatore, capace di servirsi dei codici verbali e non verbali, dei sensi diretti e indiretti: di tutti gli ingredienti di una ricetta misteriosa che non ci ha mai rivelato. La ricetta della lezione grave e leggera al tempo stesso, specifica e interdisciplinare, mai banale, a volte difficile, sempre godibilissima e ammaliante.
P: II Atto
Il cantiere
A: Esattamente otto anni più tardi, in una lettera datata 18 dicembre 1998, Giorgio Fulco ha scritto: «Intorno al collega Greco era sempre aperto uno straordinario “cantiere”, nel quale nascevano e si realizzavano, con febbrile lavoro di gruppo che coinvolgeva gli allievi migliori, mostre, convegni, pubblicazioni, cicli di spettacoli….».
Questo cantiere sarà l’oggetto del secondo atto.
P: Franco amava far gruppo, far scuola, essere al centro di una corte di cui era il magnifico reggitore, al centro di una ragnatela tessuta di intelligenze, di affetti, di gelosie, di premure, e qualche volta di “scenate”. Sì perché era un maestro possessivo. Ai suoi collaboratori più stretti chiedeva prove di stima totalizzante, quasi di devozione. Forse temeva che l’allievo potesse sfuggire dalla sua presa intellettuale e umana, che vivesse il rapporto con il maestro come strumento e non come unico, solo, punto di riferimento. Franco amava essere “dominus”, padre che ti conduce per mano, esigente nel chiedere e prodigo nel dare.
A: Come si entrava a far parte di questo cantiere? Con un seminario, una chiacchierata, manifestando la propria voglia di fare, di esserci.
Era tutta l’atmosfera che si respirava fuori dall’aula 322 a contagiare. C’erano sempre i suoi allievi: quelli di ieri (ormai professionisti affermati: giornalisti, attori, docenti), i collaboratori, i laureati, i laureandi, tantissimi studenti. Tutti legati a Franco in modi e forme diverse, ma comunque intense. E poi le attese interminabili, anche a fine luglio, momenti in cui sono nate amicizie sincere e profonde, complicità, rapporti di collaborazione e di stima, e talvolta anche gelosie e incomprensioni.
P: Cosa si produceva? Innanzitutto mostre: dal Pulcinella di Villa Pignatelli al Ribera di Castel Sant’Elmo, dalle Immagini del Teatro barocco alla Galleria Umberto I alla Titina del Teatro San Carlo.
A: Naturalmente convegni: Eduardo, i Pulcinella, Donizetti, I De Filippo,
P: Laboratori, spettacoli, seminari ed esperienze didattiche comuni e condivise.
A: Sessanta ragazzi al Teatro Bracco di Napoli per esplorare con la guida di psicologi e psichiatri “L’espressione e la comunicazione teatrale”.
P: Tre studentesse-attrici per caso a Pagani: singolare contrappunto scenico alla conferenza ex-cathedra dell’illustre studioso di Eduardo che amava tanto stupire ed ammaliare le platee con i suoi coup de theatre.
A: Tutta la squadra in trasferta a Mondragone per raccontare la storia del teatro nel campo vivo della scuola.
P: Gli spettacoli realizzati con i ragazzi.
A: I concerti a Sant’Elmo e nei luoghi del barocco napoletano, gli articoli sulla storia dell’opera a Napoli per il Teatro di San Carlo.
P: E poi i progetti mai giunti a compimento, ma realizzati in dettaglio nella fucina della mente:
A: variazioni sul tema della camorra partendo da fonti di cronaca,
P: un centro di studi e sperimentazione sulla commedia atellana,
A: la mitica rivista “Maschera e metamorfosi”,
P: il Teatro alla radio,
A: la drammaturgia della Fame,
P: un’agenzia cooperativa società per organizzare convegni, promuovere libri, produrre per la stampa e la televisione, gestire l’immagine e la produzione di spettacoli, eventi culturali, sportivi, religiosi, politici, educativi, commerciali, creare turismo ed editoria multimediale.
A: E l’ultimo, il più grandioso, il più pronto ad osare per coniugare insieme le due grandi passioni di sempre, il teatro e la città; l’atto mancato che Napoli meritava e che fino all’ultimo Franco non ha smesso di accarezzare con la mente:
P: “A’ Rivoluzzione”. Nato – come Franco ha scritto – dalla necessità di esprimere «nelle celebrazioni di quegli eventi, del pensiero che li alimentò, del sacrificio che li suggellò, la funzione civile e sociale, comunicatrice e aggregante del teatro, […] recuperata sia nelle sue forme storico – scientifiche, sia in quelle più immediatamente “fattuali”: ricreare quel teatro degli eventi, ripensati socialmente e vissuti collettivamente, che si faccia costruttore di coscienza civile e politica, e restituisca un protagonismo, sulla scena contemporanea della storia d’Italia e d’Europa, a soggetti che invece appaiono del tutto cancellati persino dalla stessa nostra complessa e problematica storia urbana».
A: Nel suo cantiere il lavoro si basava sull’uso della parola, sull’immaginazione, sulla fantasia.
P: III Atto
Il metodo
A: Tutto il fervore di quel perpetuo cantiere, in cui i lavori realizzati e quelli mai avviati spesso finivano per avere la stessa capacità catalizzatrice, tutto quel fervore creava continui entusiasmi, accendeva nei giovani studenti l’amore per il teatro e per lo studio della sua storia. Tutto pareva facile, affascinante, desiderabile… E molti pensavano ad una tesi di laurea in Storia del Teatro come il migliore dei coronamenti possibili per il proprio percorso universitario… Difficilmente qualcuno aveva l’esatta percezione di cosa potesse concretamente significare “costruire” una tesi di laurea con il professore Greco…
P: Quando uno studente, spesso dopo aver sostenuto il primo esame, si presentava per chiedere di essere seguito nella tesi, il professore rispondeva con la sua naturale gentilezza che forse era il caso di pensarci meglio, che le cose non erano tanto semplici quanto apparivano a prima vista, che c’erano già tanti, troppi laureandi presso la cattedra…
In genere questo non bastava a spegnere l’entusiasmo degli studenti…
I più timidi si limitavano a chiedere se ci fosse una lista d’attesa. Altri ribadivano con energia la propria volontà di perseverare in quella direzione… magari tornando all’attacco una seconda e una terza volta…
A: …E allora per chi, almeno per il momento, riusciva a spuntarla, cominciava un percorso singolare che, in tempi e modi simili ma sempre diversi, è stato attraversato da tutti gli allievi del professore Greco… da quelli che lo avevano scelto ed eletto a proprio maestro ma anche da quelli che erano stati scelti da lui – magari a propria insaputa – per far parte della sua squadra.
P: Il primo scoglio da superare era costituito da una serie di letture le più inimmaginabili, punto di partenza per la stesura di relazioni a dir poco impegnative per un giovane di circa vent’anni. C’è chi ha passato settimane tentando di riassumere e commentare l’introduzione al saggio di Jean Starobinsky Ritratto dell’artista da saltimbanco!
A: Ma la lettura e il commento dei testi erano ben poca cosa a confronto di quelle che si potrebbero definire “le schedature impossibili”. Queste consistevano nell’estrapolare sistematicamente -riportandoli in singole schede – i riferimenti bibliografici e le tematiche di interesse teatrale presenti in testi monumentali quali: Il settecento, edito da Vallardi; Bertana, La tragedia…
Non è difficile immaginare lo scoramento che dopo un po’ assaliva molti studenti, i quali si domandavano quale potesse essere l’utilità di un simile lavoro, specie quando venivano a sapere dallo stesso professore che tale lavoro di schedatura era già stato fatto, e non una volta sola….
P: Alcuni, sommersi dalle schede, decidevano allora di cambiare strada…
Altri, ed erano quelli che restavano, arrivavano finalmente a capire che quel lavoro di schedatura non nasceva per essere completato… sia perché il tempo che occorreva era decisamente troppo, sia perché la cosa davvero importante era acquisire “il metodo”: imparare a fare una “buona schedatura”! A quel punto che il lavoro restasse incompleto importava poco…. Eravamo pronti per provare ad andare avanti…
A: Archiviate le schede, si procedeva ancora con le letture, che poco alla volta si facevano più specifiche e circoscritte… difficilmente i progetti e gli interessi individuali degli studenti coincidevano con i percorsi proposti dal professore, ma si andava avanti… chi era partito con l’idea di voler studiare il Novecento si ritrovava a fare i conti con il melodramma settecentesco… chi aveva sempre pensato di volersi occupare di Pirandello lavorava invece sulla Commedia dell’Arte… Il professore Greco riusciva spesso a leggere le potenzialità e le affinità degli studenti con un argomento ed un autore più di quanto loro stessi fossero in grado di fare… Sapeva intuire lo spirito “comico” o “tragico” di ciascuno… lo metteva alla prova, lo sperimentava, faceva in modo che maturasse… Tutto questo richiedeva tempo e lavoro da ambo le parti… E inevitabilmente comportava un processo di “selezione naturale” e al tempo stesso di “spontanea maturazione”: i percorsi si mettevano a fuoco, le individualità assumevano un carattere più spiccato… si avvicinava il momento della “svolta”.
P: In quest’arco di tempo, più o meno lungo a seconda delle singole esperienze, ognuno incominciava a fare conti con le difficoltà pratiche che la scelta di un “maestro” come Franco Greco comportava.
Il professore Greco non aveva degli specifici orari di ricevimento. O meglio, li aveva, ma era presente almeno tre volte a settimana nella stanza 322 del dipartimento di Filologia Moderna, prima e dopo la lezione, e questa era cosa nota.
A: L’ufficio (diviso con il prof. Giorgio Fulco per croce e delizia di quest’ultimo) era dunque costantemente cinto d’assedio dagli studenti e dai laureandi.
P: Ciascuno doveva conquistarsi il proprio momento di udienza individuale, e magari, dopo averlo ottenuto, quando finalmente si sedeva di fonte a lui… le domande da fare erano tante e tali, le risposte del professore così articolate, le sue annotazioni segnate a mano sulle carte così indecifrabili, le sue indicazioni bibliografiche – dettate sempre a memoria con una precisione disarmante – erano così sovrabbondanti… che spesso, specie al principio, si finiva con l’andare via più confusi e spaesati di prima. Senza tenere conto del telefono in continua fibrillazione…
A: Anche parlare al telefono con il professore Greco era un’impresa. E nonostante ciò continuava a dare senza difficoltà ad allievi e studenti non solo il numero dell’ufficio, ma anche quello di casa! Entrambi erano cronicamente occupati! E non si pensi che venissero sistematicamente staccati per evitare il disturbo! … per chi aveva la fortuna di azzeccare il momento giusto tra una telefonata e l’altra c’era sempre una voce inconfondibile che al primo squillo rispondeva modulando le parole su di un unico fiato “Pronto chi parla?”.
P: Per quanti resistevano ed imparavano ad amare o almeno a partecipare con una certa disinvoltura a questo organizzatissimo caos, prima o poi ci sarebbe stata la “svolta”: l’assegnazione della tesi di laurea. Le tesi erano tutta la sua vita, il segno più alto della reciproca stima, il “pane quotidiano” spezzato alla mensa della conoscenza con gli allievi.
A: Quando il professore Greco avviava un nuovo lavoro di tesi, e soprattutto quando si trovava di fronte un interlocutore stimolante, era come se quella tesi fosse la prima mai assegnata nella cattedra. L’entusiasmo era nuovo e originale, si rinnovavano la voglia di esplorare, la curiosità di sapere, il gusto della ricerca. E il desiderio di farlo insieme. Non esisteva un percorso già tracciato. Gli itinerari erano tutti da scoprire. Chi si aspettava un relatore “dittatore” rimaneva inevitabilmente deluso, talvolta andava via. Ma non tutti potevano comprendere quale fortuna fosse lavorare con un maestro che ti insegnava a maneggiare ad arte i ferri del mestiere per poi lasciarti fare da solo. Che ti lasciava sbagliare perché soltanto così si impara davvero, che non stroncava le tue idee azzardate ma ti invitava a sostenerle con la necessaria evidenza, con le indispensabili “pezze d’appoggio”. E quando queste venivano fuori sapeva gioire con te di quella scoperta o di quelle intuizioni che erano solo tue, ma appartenevano anche ad una “scuola”, ad un “metodo” che riconosceva come suo.
P: Chi sapeva raccogliere le sue sfide, le sue provocazioni, gli stimoli e i suggerimenti continui e a volte contraddittori per poi farli interagire con le proprie idee, con le personali ipotesi critiche, imparando man mano ad assegnare il giusto peso a queste e a quelli, verificava giorno dopo giorno il piacere e la produttività del confronto, e magari anche dello scontro, con il professore Franco Carmelo Greco.
A: Quando il lavoro giungeva a compimento, a volte dopo diversi anni, ed il professore ne era soddisfatto, non era soltanto l’opera di un allievo ad essere presentata davanti alla commissione esaminatrice, era molto di più. E questo era evidente nel discorso di presentazione del candidato che in quel momento, per la prima volta, aveva modo di conoscere l’opinione esatta che il professore aveva del suo lavoro, delle sue capacità, del suo valore.
P: Franco era un fabbro di parole, una fabbrica culturale, sempre proiettato in avanti e perciò inafferrabile. Riusciva a trovare con grande semplicità la definizione più adatta a rendere un’idea. Conduceva gli allievi nei percorsi della conoscenza… Partiva da alcuni punti base. Poi improvvisava. Le conversazioni erano un viaggio nei saperi di un intero periodo storico, guidato dalle sue suggestioni, dalle sue gioie della lettura. Il suo mondo era la lettura, ti donava il piacere ludico di giocare con la cultura, con la letteratura e con la conoscenza.
A: Franco era in un continuo orizzonte di attesa, per questo riusciva ad arrivare in anticipo ai nuovi orizzonti di senso, e perciò era affascinante, complicato, talvolta faticoso lavorare con lui.
P: Una cosa è certa, chi – per dirla con una delle sue espressioni più care – ha saputo “metabolizzare” il “metodo” si è da subito sentito in grado di affrontare con autonomia qualsiasi argomento, tematica o problema critico. Anche se a volte questo significava rinunciare al placet del maestro.
A: Un’altra certezza è che Franco Greco amava tutti i suoi allievi. Di un amore a volte geloso e possessivo, che non accetta i compromessi e li legge come tradimenti. Questo amore moltiplicava in Franco la smania di progettare, di trovare spazi, tempi, occasioni di lavoro e di ricerca per i suoi allievi. Con il piacere, diceva compiaciuto, “di brillare di luce riflessa…”.
P: Gli allievi non sono mai stati per Franco Greco una forza lavoro da piegare alle proprie esigenze personali di ricerca e di didattica, come in genere accade in ossequio ad una perversa idea del rapporto docente-allievo imperante nelle accademie italiane.
Ma questa profonda onestà, più che essere una qualità del docente, era un abito mentale dell’uomo.
A: IV Atto
L’uomo
P: L’uomo si imparava a conoscerlo a poco a poco, anche perché il docente non faceva nulla per nasconderlo. Ci raccontava di Virgina, di Fausto e Roberto, di tutti i suoi cari: quando c’erano ancora e quando non ci sono stati più.
A: Franco era un antropologo, perché tra ricerca e vita c’era continuità, volutamente non riusciva a scindere, era un continuo boato di affettività, e questo spiega perché ha lasciato tante tracce in ognuno di noi. Non si sapeva quale aspetto prevalesse in lui: la ricerca o la vita. L’una e l’altra procedevano insieme.
P: Il mondo dei rapporti con i suoi studenti era fatto di relazioni intense, appassionate, di piccole sollecitudini, di attenzioni. Matrimoni, compleanni, nascite e soprattutto malattie, dissapori e lutti erano i momenti in cui lo sentivi più vicino, con il suo fare discreto, cortese, lieve. Uomo di grande umanità, capace di incantare l’uditorio con il suo modo di parlare e di gestire, ma anche per la sua capacità di domandarti di te, di cosa fai, di cosa sogni, la capacità di chiederti da dove vieni e dove vorresti andare. Dietro le “maniere di un gentiluomo d’altri tempi” si celava una profonda umanità e trepidazione. Esercitava sugli studenti una sorta di fascinazione, con il linguaggio raffinato, di cenni e parole, riusciva a tessere sofisticate ragnatele intellettuali.
A: Da sempre il futuro professionale dei suoi allievi gli stava a cuore, si è sentito quasi responsabile del nostro destino, ci ha condotti per mano, ci ha spronati, ha sorvegliato il nostro cammino intellettuale, ha cercato spesso di proteggerci, a volte più del necessario.
P: Colpiva il suo senso profondo di spiritualità. Il suo rapporto con Dio doveva essere sicuramente singolare, finissimo, elevato a tal punto che sembra quasi impossibile immaginarlo. Con grande sensibilità si prodigava per il prossimo. Tanti ricordano l’immagine di un uomo minuto, silenzioso, dignitoso nella sua umiltà. Di tanto in tanto passava a salutarlo in dipartimento, e a riceverne l’aiuto premuroso e sollecito, sempre discreto.
A: Franco sapeva custodire e restituire a vita sempre nuova il senso della memoria delle cose. Avvertiva il bisogno di ricordare, di documentare, di raccontare. Abbiamo attraversato sulla scia delle sue parole i percorsi quotidiani compiuti dal Viale Elena al Convitto Nazionale, nei panni di studente ginnasiale. La memoria di “misteriose” figure di indoratori in Rua Catalana si mescolava, nel percorso che saliva al Vomero attraversando la vigna di San Martino, all’evocazione di napoletani mangiatori di verdura.
P: Il suo rapporto con la memoria storica era molto profondo. Aveva vissuto l’esperienza di un’esistenza in viaggio, itinerante: dall’angusta provincia allo sterminato Sud America, e poi a Napoli e infine a Caserta. La sua storia era anche la sua geografia.
A: Ci mancherà non solo rispetto alle grandi cose ma anche alle piccole, alla sua persona fisica, alle sue garbate risate, ai toni risentiti (talvolta per finta) dei rimproveri, all’uso raffinato e sottile dell’ironia. Ci mancheranno i suoi lunghi, talvolta oscuri progetti, esposti in riunioni lunghe ore, quando giunti alla fine ci chiedevano
P: “Ma cosa avrà mai voluto dire?”
A: Nel magma incandescente che produceva, ognuno ha afferrato quello che voleva e poteva.
P: V Atto
L’eredità
A: La prima eredità, a volte inconsapevole ma comunque presente in tutti, è quella di un glossario minimo, la scena primaria che si condivideva, il linguaggio di cui ci si impadroniva un poco alla volta.
P: metabolizzare (un’idea, un testo),
A: volumetto (sono centinaia i graziosi volumetti suggeriti, consigliati, raccontati),
P: godibile (come uno spettacolo, una lettura, un quadro, un film),
A: percorso (della scena, della città, di studio, di ricerca),
P: specificità,
A: cartina di tornasole,
P: generico,
A: avere e perdere memoria (di un evento, di una storia),
P: immaginario (scenico, drammaturgico),
A: metaforizzare,
P: spazio reale e spazio virtuale,
A: mitografia,
P: intelligenza (di un testo, di uno spettacolo),
A: specificità,
P: il puntuale San Paolo perennemente folgorato sulla via di Damasco,
A: la «santa pace benedetti figlioli» invocata con accenti inconfondibili.
P: Il suo metodo anti-accademico, pluridisciplinare ha naturalmente prodotto esiti diversi: giornalisti, teatranti, ricercatori, insegnanti….
A: Generazioni si sono alternate, hanno vissuto e si sono formate nel “cantiere” dell’aula 322, costellazione sui generis, e forse oltre al grande contributo scientifico il maggiore dono di Franco alla comunità è stato quello di aver trasmesso ad una moltitudine di studenti le sue passioni.
P: La passione per la ricerca, una ricerca rigorosa, complessa, talvolta oscura ad un primo approccio. La passione per un teatro che, per dirla con le sue parole:
A: «si offre come luogo-spazio delle rappresentazioni e delle elaborazioni collettive, delle immagini individuali, e si presenta soprattutto come il più complesso strumento-evento di costruzione e di trasformazione della persona, di invenzione, di espressione di gruppo, di evento rituale che crea legami e rapporti all’interno di ogni comunità. Per questo insieme di caratteristiche il teatro si rivela come un importante mezzo di comunicazione sociale e interpersonale e, soprattutto, contribuisce al rinascere per chi sembra condannato ai margini della vita sociale».
P: A chi ha deciso di proseguire un percorso di studio e di ricerca, Franco Carmelo Greco ha dunque lasciato in eredità un’idea di teatro, un metodo per studiarlo, i suoi scritti, i progetti, le idee, la voglia di osare….
A: Le sue certezze, le sue passioni sopravvivono in noi… Ci invitano a non arrenderci, a puntare in alto, ad andare avanti.
P: Epilogo
P: A chi gli chiedeva talvolta di pronunciarsi su questioni difficilmente risolvibili in un breve scambio di battute, Franco era solito rispondere in un modo singolare, con la precisa volontà di ribadire l’importanza della continuità nella ricerca e al tempo stesso il valore sacro della tradizione, di ciò che abbiamo lasciato alle nostre spalle e di cui forse non ricordiamo neanche più bene il significato.
Le sue parole erano pressappoco queste:
A: Un uomo trova un giorno nel suo giardino uno smeraldo meraviglioso. Dopo averne ammirato a lungo la straordinaria bellezza, decide che la cosa più saggia da fare è seppellirlo nel giardino, e segnare il posto con una pietra. Non dice niente a nessuno, neanche alla moglie; ma quando questa va per spostare la pietra l’uomo la blocca, le dice che la pietra non va toccata, che è sacra, è augurale. Anzi, altre pietre dovranno essere messe sopra la prima e poi ancora altre e altre ancora.
Le pietre cominciarono così ad accumularsi e nessuno seppe mai cosa c’era sotto quel cumulo di pietre sempre più grande.
L’uomo morì, ma le pietre continuarono ad essere accumulate, riempirono il giardino intero, la casa, l’orto.
Le generazioni passarono. Si perse memoria dell’uomo, del senso che aveva quel gesto augurale… Eppure c’era sempre qualcuno che continuava a mettere pietre, e ancora pietre, e ancora pietre…
Fine
(Testo letto al convegno di studi su Franco Carmelo Greco dal titolo Maschere e Metamorfosi, Napoli-Caserta, 14-16 ottobre 1999)